IL POPOLO EBRAICO

ARTICOLI SULLA VITA E LA STORIA DEL POPOLO EBRAICO

lunedì 17 maggio 2010

Festività di Shavuoth 5770 (19-20 maggio 2010)

Festività di Shavuoth 5770 (19-20 maggio 2010)
Orario officiature e letture Torah 5770 (2010) (services time and Torah readings)
Messaggio del rabbino capo 5769 (2009)
Tikkun di Shavuoth (18 maggio 2010)

“Celebrerai la festa dell’Eterno, del tuo Dio, mediante offerte volontarie che presenterai nella misura delle benedizioni che avrai ricevuto dall’Eterno tuo Dio” (Dt 16, 19).

La festa di Shavuoth cade quest’anno i 19 e 20 maggio 2010.
E’ celebrata 50 giorni dopo Pesach e costituisce una delle tre feste di pellegrinaggio (con Sukkoth e Pesach).
E’ la festa delle offerte per eccellenza, chiamata anche Yom ha-bikkurim, “giorno delle primizie”, perché era il giorno in cui, da tutto il paese, ci si recava al Tempio di Gerusalemme per offrire al Santuario le primizie dei campi.
Durante tutte e tre feste di pellegrinaggio la popolazione maschile di Israele – ma per Sukkoth il pellegrinaggio a volte era previsto anche per le donne e i bambini (Es 2) – partiva da ogni paese, da ogni villaggio, per portare al Tempio di Gerusalemme la propria offerta, a testimonianza della propria presenza e della propria fedeltà all’ordine divino.

“Celebrerai la festa dell’Eterno, del tuo Dio, mediante offerte volontarie che presenterai nella misura delle benedizioni che avrai ricevuto dall’Eterno tuo Dio” (Dt 16, 19).
La festa di Shavuoth cade quest’anno i 19 e 20 maggio 2010.
E’ celebrata 50 giorni dopo Pesach e costituisce una delle tre feste di pellegrinaggio (con Sukkoth e Pesach).
E’ la festa delle offerte per eccellenza, chiamata anche Yom ha-bikkurim, “giorno delle primizie”, perché era il giorno in cui, da tutto il paese, ci si recava al Tempio di Gerusalemme per offrire al Santuario le primizie dei campi.
Durante tutte e tre feste di pellegrinaggio la popolazione maschile di Israele – ma per Sukkoth il pellegrinaggio a volte era previsto anche per le donne e i bambini (Es 2) – partiva da ogni paese, da ogni villaggio, per portare al Tempio di Gerusalemme la propria offerta, a testimonianza della propria presenza e della propria fedeltà all’ordine divino.
Alle origini della festa
Di seguito alla distruzione del secondo tempio (70 dopo l’era cristiana), la festività si ricentra sulla commemorazione dell’Alleanza al Sinai, al dono della Torah e dei Dieci Comandamenti.
Dopo l’uscita dell’Egitto i figli d’Israele si diressero verso il paese di Canaan, e sette settimane dopo giunsero dinanzi al monte Sinai dove ricevettero l’ordine di lavare i propri abiti. Il terzo giorno, fra lampi e tuoni, il Signore parlò al popolo che però, dinanzi allo svolgimento della natura e della potenza della voce di Dio, fu preso da grande spavento.
Mosè ricevette allora da Dio l’ordine di recarsi da solo sulla cima del monte, dove rimase quaranta giorni e quaranta notti per ricevere le due tavole della Legge, o più esattamente, come dice il testo ebraico, “le due Tavole dell’Alleanza”, il Decalogo.
L’espressione comunemente usata, Dieci Comandamenti, è imprecisa in quanto il termine che si trova nella Torah, “assereth ha-dibberoth”, le “dieci parole”, assegna a quest’ultime il valore, piuttosto, di messaggi.
Ma il popolo, vedendo che Mosè dopo quaranta giorni non era ancora tornato, temette di essere stato abbandonato e con, l’oro ricevuto in dono dagli egiziani, si costruì un vitello d’oro a imitazione del Bue Api adorato da quest’ultimi.
Mosè, scese dal Sinai, vedendo il popolo abbandonarsi all’adorazione di un idolo, spezzò le Tavole dell’Alleanza considerandolo indegno di riceverle.
Ma dopo che i trasgressori furono puniti e che il popolo si fu pentito del peccato commesso, Dio, alle preghiere di Mosè, annunciò il suo perdono con l’espressione “Salachtì”: ho perdonato. E Mosè, salito ancora una volta sul monte Sinai, ricevette nuovamente le Tavole dell’Alleanza. (1)


La liturgia
Alla funzione del mattino si legge la parashah che contiene il Decalogo. Durante la giornata viene letto anche il libro di Ruth, che si collega alla festa della mietitura. La storia di Ruth è molto bella e poetica. Naomi e i suoi due figli emigrano in Moab a causa di una carestia. I figli sposano due moabite, ma ambedue muoiono. Naomi decide allora di tornare alla sua terra e Ruth, una delle nuore, va con lei perché, dice, “la tua terra è la mia terra, il tuo Dio è il mio Dio”. Spinta dalla stessa suocera, Ruth sposa Boaz, ricco possedente e lontano parente della famiglia. Secondo la tradizione Ruth è la progenitrice del re David, dalla cui stirpe discenderà il Messia. (1)


Usanze
La festività di Shavuoth non ha comandamenti speciali. Ci sono però dei minhagim (usanze) che si sono fissati lungo i secoli (vedere Come nasce il Minhag? nella parte Cultura ebraica del sito).
Le sinagoghe vengono addobbate di fiori e di piante per ricordare che siamo all’epoca delle primizie, con un forte richiamo alle cerimonie di offerte di primizie all’epoca del Tempio.
Esiste anche l’abitudine di riunirsi la notte di Shavuoth per studiare la Torah fino all’alba. Questo studio, chiamato Tiqoun (riparazione), deve riparare la debolezza di quelli che non ebbero la forza di vegliare quando l’Eterno fece dono della Torah sul Sinai. Ma questa veglia consiste in primo luogo ad aspettare l’ora in cui gli antenati d’Israele ricevettero le parole divine. L’origine di quest’usanza è da cercare nella cabala del sedicesimo secolo. Lo scopo è di rivivere l’esperienza del Sinai nel fuoco e nella gioia.(2)

Fonti:
(1) Ziv, bulletin de la commission judaisme de la Cté des Béatitudes (Francia)
(2) Le pietre del tempo, il popolo ebraico e le sue feste di Clara e Elia Kopciowski


http://www.comunitadibologna.it/index.php?option=com_content&task=view&id=121&Itemid=1

Mons. Josef Tiso e il problema ebraico – per un sano revisionismo storico

Mons. Josef Tiso e il problema ebraico – per un sano revisionismo storico


Mons. Josef Tiso



di don Curzio Nitoglia

Introduzione

Nel 1993 lo Stato Cecoslovacco si è diviso in due, dando vita alla repubblica Slovacca e a quella Ceca. La separazione è stata voluta soprattutto dalla Slovacchia, tendenzialmente separatista sin dal 1918, quando nacque in maniera artificiosa lo Stato Cecoslovacco, che era composto allora all’incirca da 13 milioni di Cechi, 3 milioni di Tedeschi, 3 milioni di Slovacchi e 700 mila Ungheresi. La Slovacchia è una regione piccola, prevalentemente montuosa, abitata in origine da popolazioni celtiche, in seguito occupata da tribù germaniche, poi dai Romani e dai Goti. Nel VI secolo vi si installarono gli Slovacchi, che nel IX secolo dettero vita ad un regno assorbito nel IX secolo dai Magiari. Indi si unì all’Ungheria sino alla prima guerra mondiale. In seguito al trattato di Versailles che mutilò l’Ungheria, la Slovacchia nel 1918 fu annessa alla repubblica Ceca e nacque lo Stato Cecoslovacco. Tale Stato, imposto dalle potenze vincitrici e specialmente dalla Francia, non venne accolto con entusiasmo dagli Slovacchi, i quali subito manifestarono intenti separatistici. Con l’inizio della seconda guerra mondiale si realizzano le loro aspettative. Nel 1939 sotto la protezione del III Reich, che aveva riunito a sé l’Austria e l’Ungheria, anche la Slovacchia rinacque come Nazione indipendente dalla repubblica Ceca, sotto la direzione del Presidente monsignor Josef Tiso[1]. Nel 1944 la Slovacchia venne occupata dall’Armata rossa e nel 1945 venne riaccorpata alla repubblica Ceca sino al gennaio 1993.

Tiso e la questione ebraica

Nel 2002 per i tipi dell’editrice “Periferia” di Cosenza (Periferia@aec.calabria.it/ tel-fax 0984. 481.392) è uscito un interessante volume (146 pagine, 13 euro) a cura di Ingrid Graziano e Istvàn Eördögh (Josef Tiso e la questione ebraica in Slovacchia). La figura di monsignor Tiso (di lontana origine veneta) è controversa e il libro succitato ci aiuta a fare un po’di luce su di essa. Il 14 marzo del 2000 Jàn Slota, sindaco di Ziliana, ha definito Tiso “un grande personaggio” ed ha voluto erigere una lapide commemorativa in onore dello scomparso ex Presidente della Slovacchia con l’approvazione della stragrande maggioranza (40 voti su 41) del consiglio comunale[2]. Lo Stato di Israele ha protestato, ma il sindaco gli ha risposto che avrebbe fatto meglio ad occuparsi dei suoi problemi con i Palestinesi. Tuttavia le proteste dell’ambasciata Usa in Slovacchia, della comunità ebraica slovacca e l’intervento del governo slovacco hanno fatto rinviare il progetto. Il dibattito su Tiso continua «tuttora tra i suoi fautori – di cui fanno parte la stragrande maggioranza degli Slovacchi rifugiatisi in Usa e delle loro organizzazioni cattoliche, che lo considerano un martire e anelano alla sua beatificazione – ed i suoi detrattori che in lui vedono il traditore filo-nazista»[3]. La prestigiosa “Enciclopedia Cattolica” lo definisce «sacerdote esemplare» (Città del Vaticano, 1954, vol. XII, col. 142).

Nascita del ‘nazionalismo’ cattolico in Slovacchia

Il primo Presidente della Cecoslovacchia Masaryk aveva iniziato sin dal 1918 una politica di netta separazione tra Stato e Chiesa.

«Questo atteggiamento fu apprezzato soprattutto dagli Slovacchi protestanti ed ebrei, ma venne invece violentemente contrastato dal clero cattolico»[4]. La politica di separazione del Presidente Tomàs Masaryk fu accompagnata dalla nazionalizzazione di beni della Chiesa, tramite l’esproprio, l’introduzione del servizio militare anche per i sacerdoti, la soppressione delle scuole cattoliche e il sostegno alla ‘chiesa nazionale cecoslovacca’ scissa da Roma. Questa politica della Cecoslovacchia favoriva anche socio-politicamente ed economicamente l’elemento protestante ed ebraico a scapito del cattolicesimo slovacco, che era stato messo ai margini della società e non aveva una forte classe laica di influente e colta borghesia, ma unicamente rurale. Quindi il cattolicesimo, che era il cuore della Slovacchia, nell’unione o annessione alla Cecoslovacchia non aveva più alcun peso sociale e spirituale. La Chiesa cattolica perciò si schierò contro questo stato di cose e propugnò una politica di contrappeso cattolico allo strapotere protestantico ed ebraico. Sarebbe errato vedere nella reazione cattolica una specie di super-nazionalismo sciovinista slovacco: essa «fu dettata per la maggior parte da considerazioni religiose e conseguentemente economico-sociali, piuttosto che da ragioni nazionalistiche»[5]. Già in passato, nel 1895, quando la Slovacchia faceva ancora parte dell’Ungheria, il governo magiaro aveva introdotto una legislazione di separazione tra Stato e Chiesa. Allora un laico cattolico, il conte Nànor Zichy, per contrastare la legislazione liberale, fondò il “Partito Popolare Ungherese”, al quale si iscrissero anche molti sacerdoti slovacchi tra i quali Andrej Hlinka, poi divenuto vescovo di Nitra, il quale, però, quando scorse l’inclinazione filo-magiara del partito, ne uscì e fondò il “Partito Popolare Slovacco”. In quel periodo molti giovani studenti slovacchi, in maggioranza protestanti, cominciarono a vedere nella repubblica Ceca una via di scampo dalla magiarizzazione e a chiedere l’unione tra Cechi e Slovacchi in un unico Stato e ad appoggiare Tomàs Masaryk. Tuttavia sin dal 1919 si palesarono i primi attriti tra Cechi e Slovacchi: «in occasione dell’arrivo di un folto gruppo di burocrati e amministratori cechi […], il loro carattere si mostrò agli antipodi di quello slovacco, dai tratti profondamente conservatori, marcati da una religiosità inflessibile. Gli ebrei ed anche i protestanti slovacchi non ebbero invece difficoltà ad adattarsi a questo nuovo stato di cose. A soffrire, dunque, […] per la separazione fra lo Stato e la Chiesa, furono i cattolici slovacchi»[6]. Fu per questo motivo che Hlinka optò per l’autonomia della Slovacchia e fondò il 19 novembre 1918 il “Partito Popolare Slovacco” di tendenza cattolico-conservatrice. Nel 1929 Tiso divenne il vero capo e pensatore del partito fondato da Hlinka. Tiso, a differenza di un altro leader del medesimo partito, Vojtech Tuka, si oppose al piano di annessione della Slovacchia da parte dell’Ungheria. Nel 1930 divenne vicepresidente del Partito. Tra il 1936-37 il Partito di Hnilka cominciò a radicalizzarsi verso l’estrema destra ultra-nazionalista. Tuka fu uno degli esponenti più radicali di questa corrente assieme ad Alexander Mach, entrambi di tendenza filo-germanica, mentre Karol Sidor si differenziava da questi due solo per il suo filo polacchismo e fu l’avversario più tenace di Tiso, il quale paragonato ad essi era più moderato e, più che ‘separatista’ dalla repubblica Ceca, era un ‘autonomista’ della Slovenia. Quando assunse il potere in Slovacchia fu il principale artefice della sua indipendenza, ma essa avvenne all’ombra della Germania ex natura rerum. Infatti, nel 1938 dopo aver annesso l’Austria, Hitler si dirigeva verso Praga ove risiedeva una forte minoranza tedesco-sudeta, che stanca di subire vessazioni da parte dei Cechi chiedeva al III Reich protezione. Naturalmente la Slovacchia allora unita forzatamente con la repubblica ceca ne avrebbe seguito le sorti. Quando il governo ceco il 9 marzo 1939 aggredì la Slovacchia dopo la sua separazione dalla Cechia, Hitler intervenne. Convocò Tiso e lo mise di fronte all’alternativa di scegliere tra l’indipendenza slovacca garantita dalla Germania oppure l’occupazione. Tiso optò per l’indipendenza, pur se limitata dalla tutela germanica. Tuttavia, la Costituzione della neonata Slovacchia si fondava non sulla dottrina nazionalsocialista, ma sull’amor patrio e la dottrina sociale cattolica, specialmente espressa nelle encicliche Rerum novarum di Leone XIII (1890) e Quadragesimo anno di Pio XI (1931). Alcuni storici lo hanno dipinto come un antisemita biologico, opportunista asservito al nazionalsocialismo; altri come il padre gesuita Pierre Blet lo descrivono come «uomo di provata fedeltà alla Chiesa, ma anche profondamente votato alla causa della indipendenza slovacca, che avrebbe desiderato uscire dalla sua delicata posizione, ma che rimaneva al suo posto solo nella speranza di salvare il salvabile»[7]. Anche i nostri due Autori succitati scrivono: «Sicuramente gli eventi storici avevano costretto la Slovacchia di Tiso in un angolo dal quale non era facile uscire»[8]. Certamente Tiso dovette andare controcorrente: «con il suo corso nazionalista, il Paese aveva disincentivato gli investimenti da parte dei Cechi e degli Ebrei, che controllavano gran parte dei capitali investiti nelle industrie e nell’economia slovacca»[9]. In questi frangenti Tiso mostrò una prudenza non comune, poi la situazione cambiò e l’ala radicale del partito Slovacco con Tuka a capo prese un maggior rilievo e spinse la Slovacchia sempre più verso la Germania. La politica di Tiso mirò ad assicurarsi il sostegno germanico nelle trattative con l’Ungheria per la revisione dei confini, come dichiarò lui stesso in qualità di imputato davanti alla Corte Nazionale il 17 e 18 marzo 1947, ma egli non fece proprie le tendenze neopagane di una certa parte (Joseph Goebbels e Alfred Rosenberg) del nazionalsocialismo, i suoi modelli politici erano piuttosto Salazar, Dollfuss e Franco. Per quanto riguarda il problema ebraico, la posizione di Tiso era assai diversa da quella di Sidor, che era in toto simile a quella germanica, mentre Tiso seguiva la dottrina e la prassi della Chiesa cattolica di “segregazione amichevole” e non di razzismo biologico. Frattanto Tuka partì il 12 febbraio del 1939 alla volta di Berlino per assicurarsi il sostegno di Hitler alle rivendicazioni slovacche. Secondo alcuni storici e come abbiamo già intravisto «lo spettro di un’aggressione ungherese avrebbe indotto Tiso a buttarsi nelle braccia dei nazisti per salvare così la Slovacchia»[10]. Tiso non aveva mai accettato l’accorpamento della Slovacchia alla repubblica Ceca e si alleò con la Germania per ottenere la reale indipendenza della piccola Slovacchia. Sin dal 1939 aveva agganciato il suo “nazionalismo” o meglio “amor patrio” alla dottrina cattolica, in cui l’identità nazionale slovacca era sorretta dalla dottrina cristiana. Il 13 marzo 1939 Tiso venne ricevuto a Berlino da Hitler, il quale gli promise di difendere la Slovacchia da un’eventuale aggressione ungherese. «Dopo la proclamazione del nuovo Stato slovacco, il 19 marzo 1939 fu firmato il trattato di protezione con la Germania. Il 23 marzo le truppe ungheresi varcarono la frontiera ed entrarono in territorio slovacco […]. Le violazioni territoriali compiute dalle truppe magiare […] ebbero come conseguenza un ammonimento da parte del governo tedesco, sicché l’Ungheria fu costretta ad indietreggiare e a riconoscere il nuovo Stato»[11].

Slovacchia e giudaismo

Nel 1867 «si era aperta un’opportunità di sviluppo sociale ed economico per gli Ebrei. In seguito ebbe inizio la loro assimilazione principalmente alla Nazione ungherese e in numero assai inferiore alle altre nazionalità. L’assimilazione linguistica e nazionale non ebbe luogo invece tra gli ebrei ortodossi, che vivevano in numero considerevole nella Slovacchia orientale»[12]. La Cecoslovacchia, come abbiamo visto, era stata costituita in maniera artificiale nel 1918. «Gli Ebrei che si erano assimilati agli ungheresi non ebbero rapporti positivi con la Cecoslovacchia. Inoltre questa situazione fu aggravata agli occhi degli Slovacchi dal fatto che gli esponenti politici ebraici appoggiavano l’idea di una Cecoslovacchia unita e si opposero alle tendenze separatiste slovacche»[13]. Conseguentemente sin dal 1918 in Slovacchia iniziarono a manifestarsi, anche grazie alla lotta dottrinale del “Partito Popolare Slovacco” di Hnlika, fenomeni di antigiudaismo teologico, fondato anche su sentimenti religiosi, patriottici e politico-sociali. Quando si realizzò l’autonomia della Slovacchia e Tiso venne eletto Presidente del Consiglio nel 1938, riprese i temi dottrinali di Hnilka e scrisse un articolo sul giornale “Slovàk” del 25 ottobre 1938 in cui asseriva: «Nessuno deve aver timore di un regime cristiano. Esso non adotterà sistemi e ideologie straniere, non ricorrerà a ritorsioni e sarà clemente, ma se fosse costretto a difendersi saprà colpire e cacciare il nemico dal suo nascondiglio. Pur essendo la carità fraterna l’essenza del cristianesimo, il regime cristiano saprà allontanare ogni ostacolo che rappresenti un pericolo per la comunità nazionale. Perciò abbiamo abolito il Partito comunista». Quando l’esercito ungherese iniziò ad invadere la Slovacchia il 4 novembre 1938, Tiso diede ordine ai Comuni che 75. 000 ebrei nullatenenti, emigrati e vaganti nella Slovacchia, fossero dislocati nei territori meridionali destinati ad essere restituiti all’Ungheria. «L’Ungheria invece, entrata nel frattempo nei suddetti territori, a sua volta volle riconsegnare gli ebrei recentemente trasferiti. La Slovacchia però negò il permesso per il loro rientro. Sorsero così i primi campi di ebrei rifugiati sulla ‘terra di nessuno’ fra le due frontiere»[14]. Allora «il governo slovacco tentò di risolvere la questione ebraica attraverso l’emigrazione volontaria, ma questo piano era destinato a fallire perché la maggioranza degli ebrei […] si opponeva ad un allontanamento arbitrario […] e preferiva aspettare un cambiamento politico. In merito alle tendenze radicali, Tiso, negli anni 1939-1940, assunse una posizione alternativa per la soluzione della questione ebraica e scelse la cosiddetta “via graduale”. Essa implicò una moderata e progressiva, ma non meno decisa volontà politica di escludere [sarebbe più corretto dire: limitare la preponderanza] gli ebrei in Slovacchia dalla vita economica, politica e sociale»[15]. L’influsso ebraico nella Slovacchia corrispondeva alla proprietà del 40% del patrimonio nazionale. Tiso nominò una commissione nel 1939 al fine di ridurre la preponderanza economica, politica e sociale giudaica alla proporzione corrispondente al numero percentuale di Ebrei viventi in Slovacchia, che era del 4%. Tiso scrisse: «offriremo agli Ebrei il 4% delle opportunità secondo la percentuale del 4% che essi rappresentano nell’ambito della nostra Nazione» (Slovàk 13 marzo 1940). In breve, una Nazione di 3 milioni di abitanti Slovacchi aveva un reddito del 60%, mentre il rimenerete 40% era posseduto dalla popolazione ebraica pari al 4%, ossia a 120.000 persone. La di sproporzione era evidente ed andava corretta. Nonostante ciò, «la soluzione della questione ebraica non procedette con la rapidità richiesta da una parte dai nazisti tedeschi e dall’altra dai radicali slovacchi, come Tuka e Mach […]. Tiso, posto di fronte ai fenomeni di violenza causati dalla mobilitazione antiebraica, cercò di prevenire le azioni arbitrarie e il 15 marzo 1939 avvertì la popolazione nel suo discorso radiofonico: “Nessuno pensi di poter risolvere la questione la questione ebraica da sé […] in caso contrario il governo si riserva di agire severamente in proposito”» e il giorno dopo sempre tramite radio precisò: «allontaneremo ciò che deve essere allontanato senza odio e senza passione, non con la brutalità ma in modo cristiano». Dipoi «la guerra scoppiata tra la Germania e l’Urss rafforzò la propaganda contro il bolscevismo ebraico»[16].

Tiso e il giudaismo

«Esiste in parte della storiografia recente una tendenza a prosciogliere, in un certo senso, Tiso dall’accusa di aver perseguito una violenta politica antisemita, imputando ai radicali del suo Partito – Tuka, Mach e Durcansky – gran parte delle colpe per le deportazioni ebraiche che ebbero luogo in Slovacchia»[17]. Il 5 dicembre del 1939 «Pio XII si congratulò con Tiso per la sua ascesa alla carica di Presidente della Repubblica»[18]. Tiso acconsentì inizialmente solo alla limitazione della preponderanza ebraica dalla vita economica del Paese. Nel 1940 la “legge 198”, firmata da Tuka e da Mach ma non da Tiso, costrinse gli Ebrei ai lavori forzati. Certamente Tiso era favorevolissimo a partecipare con la Germania alla guerra contro Stalin, vista come una “crociata contro il comunismo” ad extra, conclusione logica di quella ad intra contro la massoneria, il comunismo e il giudaismo presenti in Slovacchia. Per quanto riguarda la espulsione degli ebrei dalla Slovacchia e la loro dislocazione, essa ebbe inizio il 26 marzo 1942 e cessò, dietro richiesta del Vaticano, nell’ottobre del medesimo anno. «La linea di Tiso era condivisa anche da altri ecclesiastici, come ad esempio dal vescovo di Spis Jan Vojatassak»[19]. Quello di Tiso non era antisemitismo biologico o razziale dettato da odio, ma antigiudaismo teologico tradizionale spinto da amor patrio. Frattanto nel 1943 l’America era intervenuta presso la S. Sede «per far sapere a Josef Tiso che il suo atteggiamento nei confronti degli ebrei non sarebbe stato dimenticato»[20]. Ma monsignor «Tiso non sembrava minimamente scalfito dall’avvertimento americano […]. Quando nel 1944 i Russi si avvicinarono alla Slovacchia, rifiutò di fuggire con l’aereo che Hitler gli aveva messo a disposizione»[21], per rifugiarsi in Germania presso il cardinal Faulhaber arcivescovo di Monaco. Tiso difese il suo operato davanti alla S. Sede con una lettera nella quale scriveva che «Le misure prese contro i Cechi e gli Ebrei miravano unicamente a eliminare l’influenza deleteria di alcuni elementi, i quali si erano alleati in agosto ai paracadutisti – inviati in Slovacchia dal governo Ceco in esilio a Londra al fine di unirsi alla Resistenza locale – e, di conseguenza, avevano costretto il Paese a chiedere l’aiuto tedesco per domare la rivolta»[22].

Conclusione

L’ultima lettera di monsignor Tiso a Pio XII dell’8 novembre 1944 rappresenta il suo testamento spirituale e dottrinale. Tiso affermava che «le accuse di atrocità al governo slovacco, commesse nei confronti di persone a causa della loro nazionalità e della loro stirpe sono soltanto dicerie ed esagerazioni della propaganda nemica […]. Durante i cinque anni della indipendenza slovacca non si è verificata neppure una sola condanna a morte. L’espulsione dei Cechi e la dislocazione degli Ebrei come forza lavoro per la Germania è stata una necessità imposta dall’esigenza di difendere la nostra Nazione dai suoi nemici che hanno operato in essa in modo distruttivo da secoli […]. La piccola Slovacchia troppo debole per difendersi da sola dall’invasione ungherese ha dovuto chiamare in suo aiuto il III Reich germanico quale suo protettore». Josef Tiso venne arrestato verso la metà di giugno del 1945 da parte di servizi segreti americani. Egli non venne consegnato al Vaticano, ma alla ricostituita Cecoslovacchia, la quale il 15 aprile del 1947 lo condannò a morte per impiccagione. Vittorio Messori sulla rivista Il Timone dell’aprile 2006, sotto il titolo “Presidente e prete calunniato”, ha scritto: «L’alba del 18 aprile del 1947, nel cortile del tribunale di Bratislava, un uomo sulla sessantina [Josef Tiso], dalla corporatura massiccia, accompagnato da un frate cappuccino, saliva i pochi gradini di un patibolo, sul quale incombeva una forca. Solo sette minuti dopo il momento in cui la botola gli si è aperta sotto i piedi, l’espressione del condannato si è lentamente trasformata in un orribile rictus, mentre dalle sue mani scivolava la corona di un rosario che stringeva tra le mani. Si era scelta l’impiccagione perché considerata più degradante della fucilazione e si era fatto in modo che la morte non fosse immediata ma sopravvenisse tra tormenti e terrori» (p. 64). L’Osservatore Romano qualche giorno dopo chiosò: «non si è cercata giustizia ma vendetta». Messori commenta: «la presenza di un sacerdote, per giunta non sconfessato dalla Gerarchia, ai vertici della Slovacchia – secondo alcuni – sarebbe la prova della solidarietà se non della simbiosi tra cattolicesimo e nazionalsocialismo. […] Anche perché papa Pacelli lo onorò con un breve quando fui eletto Presidente della Slovacchia» in cui si legge: «Noi approviamo le vostre intenzioni lodevoli di volervi sforzare, nel compimento del vostro incarico, di mantenere le relazioni con Noi e di volerle rafforzare. Vi promettiamo di appoggiarvi con tutti i Nostri sforzi nel compimento di questo progetto e vi impartiamo la Benedizione Apostolica». Il fondatore del partito cui aderì Tiso fu don Andrej Hlinka «un religioso venerato dal suo popolo, non soltanto per l’attività politica ma anche per lo straordinario fervore di opere sociali e assistenziali da lui promosse. Fedele uomo di Chiesa e cattolico di ortodossia sicura, ispirò il suo partito alla dottrina sociale della Chiesa, escludendo ogni violenza ed estremismo, ma chiedendo con fermezza libertà per la Slovacchia, asservita all’Ungheria nel sistema imperiale asburgico. […] Nel frattempo morto mons. Hnilka, la responsabilità del ‘Partito popolare Slovacco’ passava all’ancor giovane don Josef Tiso […]. Laureato in teologia, di vita e di pensiero inappuntabili, sino alla fine all’impegno politico volle unire la responsabilità pastorale di una piccola parrocchia, per mostrare che era e restava innanzitutto prete. […]. Con realismo cristiano, Tiso – messo alle spalle al muro da un Diktat: o indipendenza [dalla repubblica Ceca] e alleanza [con la Germania] o occupazione militare – scelse la strada del male minore. […]. Confidò più volte che era sceso in politica per necessità, sospinto dal bisogno della sua Patria. […]. Egli rifiutò la dottrina razziale biologica nazionalsocialista, incompatibile con la dottrina cattolica. […]. Per ben cinque volte espresse il desiderio che un’autorità ecclesiastica superiore, foss’anche solo il suo vescovo, gli chiedesse di lasciare la carica di Stato. Si volle invece che restasse. Restò, in effetti, per spirito d’obbedienza, ben sapendo che ciò gli sarebbe costato la vita, che aveva offerta al suo popolo» (p. 66). Una figura da rivisitare, per dissipare le zone d’ombra che la contemporanea letteratura “politicamente corretta” le ha incollato addosso.

8 maggio 2010

Link a questa pagina: http://www.doncurzionitoglia.com/mons_josef_tiso.htm


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[1] Nacque il 13 ottobre 1887 a Velka Buta da una famiglia di contadini. Studiò al Seminario di Nitra e poi al Pazmaneum di Vienna ove si addottorò in teologia. Fu ordinato sacerdote nel 1910.

[2] Cfr. Ingrid Graziano – Istvàn Eördögh, Josef Tiso e la questione ebraica in Slovacchia, Cosenza, Periferia, 2002, p. 9.

[3] Ibidem, p. 10.

[4] Ib., p. 13.

[5] Ib., p. 14.

[6] Ib., p. 15.

[7] P. Blet, Pio XII e la Seconda Guerra Mondiale negli archivi vaticani, Torino, 1999, p. 224.

[8] Ingrid Graziano – Istvàn Eördögh, Josef Tiso e la questione ebraica in Slovacchia, p. 19.

[9] Ibidem, p. 21.

[10] Ib., p. 26.

[11] Ib., p. 34.

[12] Ib., p. 57.

[13] Ivi.

[14] Ib., p. 59.

[15] Ib., p. 60.

[16] Ib., p. 71.

[17] Ib., p. 43.

[18] Ib., p. 89.

[19] Ib., p. 49.

[20] Ib., p. 53.

[21] Ivi.

[22] Ib., p. 55; cfr. anche P. Petruf, La Slovaquie, Parigi, PUF, 1998; J. A. Mikus, La Slovaquie, une nation au coeur de l’Europe, Losanna, L’Age d’Homme, 1992.

Questo articolo é stato pubblicato 14 maggio 2010, 07:42 ed é archiviato sotto Storia. Resta aggiornato attraverso il feed RSS 2.0. Puoi lasciare un commento oppure inviare un trackback dal tuo sito.





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lunedì 12 aprile 2010

EBREI MESSIANICI

A proposito di «ebrei messianici»
Elena Lea Bartolini De Angeli
E’ possibile che, visitando la Città vecchia a Gerusalemme nei pressi della porta di Jaffa, o recandosi ad Ein Karem, si senta parlare di comunità di «ebrei messianici» che in quei luoghi – e non solo – hanno la loro sede, o può succedere comunque di sentirli nominare non necessariamente in riferimento a Gerusalemme. Ma chi sono? «Ebrei cristiani»? O qualcos’altro?

Il fenomeno non nasce in Terra di Israele ma vi arriva con la ‘alijiah, il «ritorno» verso la Terra dei padri. Il contesto originario va ricercato in Occidente nel movimento Jesus-believing Jews (Jbj) che si rifà agli ebrei credenti in Gesù del primo secolo. Non a caso cercano di individuare un possibile legame con la primitiva comunità giudeo-cristiana di Gerusalemme, idea che affermano con forza a Londra durante l’International Hebrew Christian Conference del 1925, alla quale partecipano delegati di 22 nazioni. È in quest’ambito che, progressivamente e fra alterne vicende, si sviluppa l’attuale movimento dei Messianic Jews (ebrei messianici).

Gli studiosi del fenomeno tuttavia, individuano come uno dei più influenti predecessori di tutto questo Joseph Rabinowitz, nato in una famiglia chassidica della Russia, che giunse alla fede in Gesù durante un viaggio in Palestina nell’estate del 1882. L’originalità di Rabinowtiz e del movimento da lui fondato («Israeliti della nuova alleanza») sta nell’insistenza ostinata con cui affermò che la sua fede in Gesù non aveva fatto di lui un ex-ebreo, anche se aveva deciso di farsi battezzare come segno di appartenenza all’universale Chiesa di Cristo senza per questo diventare un membro di una particolare denominazione cristiana della gentilità e senza abbandonare la sua identità ebraica.

Fin dall’inizio contraddistinti da correnti diverse, e variamente influenzati dalla Haskalah, «l’emancipazione» ebraica, i Messianic Jews si delineano sempre di più come coloro che hanno deciso di credere in Gesù di Nazaret come Figlio di Dio e Redentore. Sul contenuto dell’espressione «Figlio di Dio» non c’è uniformità: c’è chi lo comprende soltanto in termini umani escludendone la divinità, e c’è chi invece cerca di giustificare la sua origine divina riconducendola alla Qabbalah – la mistica ebraica – o al concetto di Shekhinah, «presenza di Dio», escludendo quindi qualsiasi riferimento ai Simboli cristiani da Nicea in poi. Si dividono anche sull’adesione o meno alla tradizione orale ebraica: c’è chi riconosce solo la Torah (Pentateuco) scritta. Sostanzialmente comunque osservano i precetti e celebrano il Sabato, qualche gruppo celebra anche la Domenica con modalità proprie, la festa principale rimane la Pasqua, sia come Pasqua ebraica che come «memoriale» di Gesù. Tutto ciò nell’attesa del suo ritorno, quindi come «messia» che non ha ancora concluso la sua opera, che deve realizzare i «tempi messianici definitivi» che ogni ebreo attende.

Il problema di fondo è come mostrare la propria identità di fronte alla Sinagoga e alla Chiesa: per il momento i rapporti restano difficili, il rabbinato – e le correnti religiose ortodosse – non vedono bene il fenomeno, e le diverse confessioni cristiane – alle quali ogni tanto qualche gruppo tenta di collegarsi – hanno comprensibili difficoltà ad integrarli al loro interno. C’è comunque chi ritiene che gli ebrei messianici contribuiscano a riaprire in maniera significativa la riflessione sulla fine del giudeo-cristianesimo che ha privato di fatto la Chiesa cristiana del legame diretto con la sua radice ebraica.




http://www.bibbiablog.com/2010/04/11/a-proposito-di-%c2%abebrei-messianici%c2%bb/

sabato 10 aprile 2010

Israele: molte denunce al telefono per vittime di pedofilia nelle scuole dei rabbini

Israele: molte denunce al telefono per vittime di pedofilia nelle scuole dei rabbini
10 03 2010
GERUSALEMME (1 aprile) – Una organizzazione non governativa israeliana che da anni si occupa di violenze domestiche, su donne e minorenni, denuncia casi di pedofilia anche nella realtà delle scuole rabbiniche (yeshivot).

I volontari della Association of Rape Crisis Centers in Israel (ARCCI www.1202.org.il)
hanno creato una linea telefonica d’aiuto ad hoc, destinata proprio alle vittime dei collegi religiosi ebraici. L’iniziativa si rivolge a ragazzi e giovani immersi nel mondo a parte delle comunità ortodosse e ultraortodosse. Ma non solo a loro, come dimostra il caso recente di un influente rabbino di Gerusalemme (estraneo a correnti radicali) costretto a lasciare l’insegnamento e autoconfinarsi in provincia dall’inedito bando di un sinedrio di confratelli dopo essere stato accusato di «comportamenti impropri» verso alcuni discepoli. Uno dei pochi episodi emersi dall’interno, si osserva all’Aecci, le cui linee telefoniche hanno cominciato a raccogliere in misura sempre più consistente denunce di abusi, maltrattamenti e vere e proprie molestie sessuali commesse nelle yeshivot, nei bagni rituali e qualche volta addirittura in sinagoga, ad opera di rabbini o docenti.

Un fenomeno minoritario, certo, come in tutte le realtà – religiose e laiche – infettate dalla piaga, sottolineano i responsabili dell’associazione. Ma non per questo irrilevante, se si pensa che gli sos di voci maschili giunti all’Arcci sono stimati quasi pari a quelli delle vittime femminili.

L’associazione, che conta nove strutture in giro per il Paese, si propone di rompere un muro di silenzio tuttora spesso, come testimonia il fatto che in questo contesto l’iniziativa d’aiuto è nata al di fuori delle istituzioni religiose. Il primo passo, il più difficile, è denunciare, visto che – notano gli operatori – «i giovani religiosi usano persino parole diverse dai loro coetanei e hanno una soglia del pudore molto alta, un’educazione secondo cui certi termini non si dicono e basta». Per questo, poco più di cinque anni fa, l’ong ha messo a punto un numero di emergenza specifico, curato da centralinisti osservanti, per haredim (gli ebrei ortodossi, spesso ai margini delle leggi laiche d’Israele) e allievi di collegi religiosi in genere. «Ogni anno riceviamo tra 500 e 600 chiamate – racconta all’Ansa Akiva, uno dei volontari -, per lo più sono teenager, ma non soltanto. Telefonano anche uomini adulti, o magari anziani, abusati anni fa e che ora cercano un modo per affrontare il vecchio trauma».

«Circa l’80% dei ragazzi molestati non denuncia comunque l’aggressore», aggiunge. Mentre, insolitamente, «l’incidenza degli abusi (raccolti dall’Arcci) risulta pressoché uguale fra maschi e femmine». Il sospetto è del resto che si tratti solo della punta dell’iceberg. «Molti dei ragazzi che accettano di venire allo scoperto scappano dalla loro comunit… – riprende Akiva – perchè si sentono alienati. Ma il mondo ‘esternò resta poi inospitale per loro: ha codici, usi e costumi ignoti». Di positivo c’è che un volta denunciata la molestia gran parte del lavoro è fatta, poichè «nell’ebraismo non esiste un’autorità centrale paragonabile al Vaticano in grado di riassegnare ad altre comunità un rabbino o insegnante di yeshiva riconosciuto colpevole». Di negativo c’è però che le denunce, qui, sembrano restare un’eccezione.

Fonte: http://www.ilmessaggero.it/articolo_app.php?id=27965



http://www.agerecontra.it/public/press/?p=4070#more-4070

mercoledì 27 gennaio 2010

Il senso del Giorno della Memoria-27 Gennaio








Il senso del Giorno della Memoria



Renzo Gattegna, Presidente Unione Comunità Ebraiche Italiane

Sessantacinque anni fa, il 27 gennaio 1945, venivano aperti i cancelli di Auschwitz. Le immagini che apparvero agli occhi dei soldati sovietici che liberarono il campo, sono impresse nella nostra memoria collettiva. Ad Auschwitz, come negli innumerevoli altri campi di concentramento e di sterminio creati dalla Germania nazista, erano stati commessi crimini di incredibile efferatezza. Tali crimini non furono commessi solo contro il popolo ebraico e gli altri popoli e categorie oppressi, ma contro tutta l’umanità, segnando una sorta di punto di non ritorno nella Storia.

L’uomo contemporaneo, con il suo grande bagaglio di conoscenze, nel cuore del continente più civile e avanzato, era caduto in un baratro. Aveva utilizzato il suo sapere per scopi criminali, tramutando quelle conquiste scientifiche e tecnologiche, di cui l’Europa era allora protagonista indiscussa, in strumenti per annichilire e distruggere intere popolazioni, primi fra tutti gli ebrei d’Europa.

Da quel trauma l’Europa e il mondo intero si risvegliarono estremamente scossi. Si domandarono come era stato possibile che la Shoah fosse avvenuta. E, soprattutto, quali comportamenti e azioni mettere in atto per scongiurare che accadesse di nuovo.

Dalla consapevolezza dei crimini di cui il nazismo si era macchiato nacque nel 1948 la Dichiarazione universale dei diritti umani, promulgata dalle Nazioni Unite allo scopo di riconoscere a livello internazionale i diritti inalienabili di tutti gli uomini in ogni nazione.

La consapevolezza di ciò che era stato Auschwitz fu tra gli elementi fondamentali per la costruzione, identitaria prima ancora che giuridica, della futura Europa unita.

Scriveva il filosofo Theodor Adorno che dopo Auschwitz sarebbe stato “impossibile scrivere poesie”, intendendo rendere l’idea di quali implicazioni radicali comportava assumersene la responsabilità, negli anni della ricostruzione e della nascita dell’Europa unita.

Era indispensabile stabilire con esattezza ciò che l’Europa non sarebbe stata. Alle radici dell’impostazione ideale dell’attuale Unione Europea c’è il rispetto per la dignità umana e il rigetto per ciò che era accaduto, sia prima che durante la guerra, a causa di idee razziste e liberticide. Auschwitz è la negazione dei principi ispiratori dell’Europa coesa, economicamente, socialmente e culturalmente avanzata che conosciamo oggi.

Il 27 gennaio 2010 il Giorno della Memoria si celebra in Italia per la decima volta. Dieci anni sono passati da quando fu chiesto all’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane di partecipare all’attuazione delle iniziative, promosse dalle istituzioni dello Stato italiano e in particolare dal Ministero dell’Istruzione, che avrebbero caratterizzato lo svolgimento di questa giornata. Oggi il Giorno della Memoria è diventato un’occasione fondamentale, per le scuole, di formare tanti giovani tramite una importante attività didattica e di ricerca.

Da allora l’ebraismo italiano si è a più riprese interrogato sul modo di proporre una riflessione che non fosse svuotata dei suoi significati più profondi, riducendosi a semplice celebrazione. Al di là delle giuste, necessarie parole su Shoah e Memoria, crediamo infatti che occorra cercare di perpetuare il senso vero di questo giorno.

Molti sono stati in questi anni gli studi, gli articoli, le riflessioni, le pubblicazioni di studiosi e intellettuali che hanno tentato di definire e ridefinire costantemente il senso della Memoria.

Esiste infatti una problematica della relazione tra Storia e Memoria. La Shoah è ormai consegnata ai libri di Storia, al pari di altri avvenimenti del passato. Pochi testimoni sono rimasti a raccontarci la loro esperienza. Si potrebbe ipotizzare una Memoria cristallizzata nei libri, come un evento importante ma lontano nel tempo, da studiare al pari di qualsiasi altro capitolo di un libro scolastico, con il rischio di rendere distante il significato e la ragione vera per cui il Giorno della Memoria è stato istituito per legge.

L’umanità esige che ciò che è avvenuto non accada più, in nessun luogo e in nessun tempo. E’ di enorme importanza che le nuove e future generazioni facciano proprio questo insegnamento nel modo più vivo e partecipato possibile, stimolando il dibattito, le domande, i “perché” indispensabili per la comprensione di quei tragici eventi.

Scriveva la filosofa Hannah Arendt, che il male non ha né profondità, né una dimensione demoniaca. Può ricoprire il mondo intero e devastarlo, precisamente perché si diffonde come un fungo sulla sua superficie. E’ una sfida al pensiero, perché il pensiero vuole andare in fondo, tenta di andare alle radici delle cose, e nel momento che s’interessa al male viene frustrato, perché non c’è nulla. Questa è la banalità. Solo il Bene ha profondità, e può essere radicale.

La filosofa che forse più in profondità ha studiato le aberrazioni del nazismo, coniando quella ormai famosa espressione, “la banalità del male”, riferita a uno dei principali esecutori della Shoah, dà una definizione di tetra neutralità e ignavia a chi non pensa, a chi non riflette, a chi non ha idee proprie, a chi non dà valore e giudizio alle proprie azioni e alle loro conseguenze. La Arendt collega il “bene” direttamente al pensiero, fonte vitale di comprensione del mondo.

Favorendo noi una riflessione vivace nei ragazzi, renderemo forse il servizio migliore a questo Giorno che, per essere vissuto nel modo più autentico, necessita di un pensiero non statico, non nozionistico.

Occorre fornire alle nuove generazione gli strumenti, anche empirici, per riflettere su cosa l’umanità è stata in grado di fare, perché non accada mai più.

Questo, forse, è il senso più vero del Giorno della Memoria, ed è un bene prezioso per tutti.


http://www.ucei.it/giornodellamemoria/index2.htm

giovedì 28 maggio 2009

"Usa non dettino nostra politica"

"Usa non dettino nostra politica"
Replica ministro Israele a Obama
Il governo israeliano non consentirà agli Stati Uniti di dettare la sua politica, e "la costruzione degli insediamenti non sarà fermata". A sostenerlo, dopo che Obama aveva chiesto a Israele di bloccare le costruzioni negli insediamenti cisgiordani, è il ministro israeliano per gli Affari strategici, Moshe Yaalon. "Gli insediamenti non sono la ragione del fallimento del processo di pace, non sono mai stati un ostacolo, in nessuna fase", ha detto.

"Anche quando Israele si è ritirato dai territori palestinesi - ha proseguito il ministro - il terrorismo è continuato. Anche quando abbiamo smantellato le colonie nella Striscia di Gaza ciò che abbiamo avuto è stato un Hamastan (termine spregiativo, derivante da Hamas e dal termine persiano -stan, che significa casa o territorio; quindi Paese di Hamas, ndr)".

Yaalon, ex capo di stato maggiore dell'esercito israeliano, ha comunque ribadito che il governo smantellerà gli insediamenti illegali in Cisgiordania, come annunciato nei giorni scorsi.



http://www.tgcom.mediaset.it/mondo/articoli/articolo450528.shtml

Festività di Shavuoth 5769 (29-30 maggio 2009)


Festività di Shavuoth 5769 (29-30 maggio 2009)


“Celebrerai la festa dell’Eterno, del tuo Dio, mediante offerte volontarie che presenterai nella misura delle benedizioni che avrai ricevuto dall’Eterno tuo Dio” (Dt 16, 19).

La festa di Shavuoth cade quest’anno i 29 e 30 maggio 2009.
E’ celebrata 50 giorni dopo Pesach e costituisce una delle tre feste di pellegrinaggio (con Sukkoth e Pesach).
E’ la festa delle offerte per eccellenza, chiamata anche Yom ha-bikkurim, “giorno delle primizie”, perché era il giorno in cui, da tutto il paese, ci si recava al Tempio di Gerusalemme per offrire al Santuario le primizie dei campi.
Durante tutte e tre feste di pellegrinaggio la popolazione maschile di Israele – ma per Sukkoth il pellegrinaggio a volte era previsto anche per le donne e i bambini (Es 2) – partiva da ogni paese, da ogni villaggio, per portare al Tempio di Gerusalemme la propria offerta, a testimonianza della propria presenza e della propria fedeltà all’ordine divino.
Alle origini della festa
Di seguito alla distruzione del secondo tempio (70 dopo l’era cristiana), la festività si ricentra sulla commemorazione dell’Alleanza al Sinai, al dono della Torah e dei Dieci Comandamenti.
Dopo l’uscita dell’Egitto i figli d’Israele si diressero verso il paese di Canaan, e sette settimane dopo giunsero dinanzi al monte Sinai dove ricevettero l’ordine di lavare i propri abiti. Il terzo giorno, fra lampi e tuoni, il Signore parlò al popolo che però, dinanzi allo svolgimento della natura e della potenza della voce di Dio, fu preso da grande spavento.
Mosè ricevette allora da Dio l’ordine di recarsi da solo sulla cima del monte, dove rimase quaranta giorni e quaranta notti per ricevere le due tavole della Legge, o più esattamente, come dice il testo ebraico, “le due Tavole dell’Alleanza”, il Decalogo.
L’espressione comunemente usata, Dieci Comandamenti, è imprecisa in quanto il termine che si trova nella Torah, “assereth ha-dibberoth”, le “dieci parole”, assegna a quest’ultime il valore, piuttosto, di messaggi.
Ma il popolo, vedendo che Mosè dopo quaranta giorni non era ancora tornato, temette di essere stato abbandonato e con, l’oro ricevuto in dono dagli egiziani, si costruì un vitello d’oro a imitazione del Bue Api adorato da quest’ultimi.
Mosè, scese dal Sinai, vedendo il popolo abbandonarsi all’adorazione di un idolo, spezzò le Tavole dell’Alleanza considerandolo indegno di riceverle.
Ma dopo che i trasgressori furono puniti e che il popolo si fu pentito del peccato commesso, Dio, alle preghiere di Mosè, annunciò il suo perdono con l’espressione “Salachtì”: ho perdonato. E Mosè, salito ancora una volta sul monte Sinai, ricevette nuovamente le Tavole dell’Alleanza. (1)


La liturgia
Alla funzione del mattino si legge la parashah che contiene il Decalogo. Durante la giornata viene letto anche il libro di Ruth, che si collega alla festa della mietitura. La storia di Ruth è molto bella e poetica. Naomi e i suoi due figli emigrano in Moab a causa di una carestia. I figli sposano due moabite, ma ambedue muoiono. Naomi decide allora di tornare alla sua terra e Ruth, una delle nuore, va con lei perché, dice, “la tua terra è la mia terra, il tuo Dio è il mio Dio”. Spinta dalla stessa suocera, Ruth sposa Boaz, ricco possedente e lontano parente della famiglia. Secondo la tradizione Ruth è la progenitrice del re David, dalla cui stirpe discenderà il Messia. (1)


Usanze
La festività di Shavuoth non ha comandamenti speciali. Ci sono però dei minhagim (usanze) che si sono fissati lungo i secoli (vedere Come nasce il Minhag? nella parte Cultura ebraica del sito).
Le sinagoghe vengono addobbate di fiori e di piante per ricordare che siamo all’epoca delle primizie, con un forte richiamo alle cerimonie di offerte di primizie all’epoca del Tempio.
Esiste anche l’abitudine di riunirsi la notte di Shavuoth per studiare la Torah fino all’alba. Questo studio, chiamato Tiqoun (riparazione), deve riparare la debolezza di quelli che non ebbero la forza di vegliare quando l’Eterno fece dono della Torah sul Sinai. Ma questa veglia consiste in primo luogo ad aspettare l’ora in cui gli antenati d’Israele ricevettero le parole divine. L’origine di quest’usanza è da cercare nella cabala del sedicesimo secolo. Lo scopo è di rivivere l’esperienza del Sinai nel fuoco e nella gioia.(2)

Fonti:
(1) Ziv, bulletin de la commission judaisme de la Cté des Béatitudes (Francia)
(2) Le pietre del tempo, il popolo ebraico e le sue feste di Clara e Elia Kopciowski

http://www.comunitadibologna.it/index.php?option=com_content&task=view&id=121&Itemid=1